CollezioneEnzo Nembrini

 

 

Mirage

 

Ecoedile a Trescore Balneario, da oltre dieci anni, si presenta come un’architettura discreta ma

inconfondibile. Il basamento in cemento si riflette nella lunga vasca d’acqua che lo affianca, mentre

la trama verticale del legno filtra lo sguardo con ritmo silenzioso. Un equilibrio severo e accogliente

che radica l’edificio nel paesaggio e dialoga con chi lo attraversa.

 

Questa visione appartiene a Enzo Nembrini, che ha raccolto la lezione degli architetti giapponesi

Tadao Ando e Kengo Kuma, traducendola insieme ad Arcoquattro Architettura in un organismo

ospitale, aperto al contesto. All’interno, scale, passerelle sospese e superfici di vetro creano

trasparenze che collegano piani e ambienti, in un continuo alternarsi tra stanze e open space. Con il

tempo, però, la configurazione originaria, pur funzionale, mostra limiti: l’aumento dei dipendenti e

delle attività richiede spazi più confortevoli, e la crescita della collezione d’arte rende necessaria

una nuova armonia tra architettura e opere. Enzo Nembrini afferma: «Vorrei che l’arte fosse una

stanza in comune: una trama che attraversa hall, corridoi e uffici; che orienti i percorsi, apra pause

vere e restituisca appartenenza».

 

 

Così coinvolge l’artista Agostino Iacurci, classe 1986 di Foggia, oggi di base a Bologna. «Ho

voluto conoscerlo davvero,» racconta, «e approfondire le sue radici: il Sud America, gli anni a

Berlino, il periodo in Messico. Mi ha parlato di un’evoluzione interiore: dalle geometrie arcaiche a

un linguaggio botanico, più fluido e vitale. Dipinge, costruisce, mette in scena senza rigidità.»

Agostino apre il lavoro con ascolto e prove in situ: si siede al tavolo con chi vive gli spazi, misura

bisogni, ritaratura dopo ritaratura. «Mi sento lavoratore tra lavoratori» dice: la mano che dipinge

riconosce la mano che costruisce, alla stessa scala 1:1. Da qui prende forma Mirage: un secondo

respiro dell’edificio. Per due mesi, abita lo spazio e lo trasforma passo dopo passo. I disegni

preparatori diventano pennellate, le pareti scenografie vive.

Di fianco all’edificio, la vasca accompagna il basamento con una pianta-scultura alta quattro metri:

un cactus verde con corolle rosa che si riflette nell’acqua, moltiplicando la sua presenza.

Dall’esterno, campiture traslucide blu e arancioni proiettano all’interno la sagoma di un arco, che

accoglie Prach a broky dell’artista Helena Hladilová, un corpo di pietra con mani in bronzo che

guidano alla scala.

 

 

Salita la prima rampa, l’atrio si apre in un paesaggio dipinto. La parete curva si popola di grandi

vasi arancio, dai quali si innalzano steli neri e verdi e corolle rosse. Le sagome si alternano a motivi

geometrici, in una sequenza che ricorda colonne e capitelli reinventati. Sulla parete di fronte

compaiono palme dal tronco a losanghe arancio e nere, sormontate da chiome aperte, quasi fuochi

vegetali che dilatano lo spazio verso l’alto. Le piante verdi distribuite lungo il pavimento entrano in

dialogo con quelle dipinte: cactus e foglie ampie sembrano prolungare i segni pittorici, intrecciando

il vivo e l’immaginato.

Ci si ritrova nei giardini delle domus pompeiane: superfici chiuse si aprivano a paesaggi generativi,

in cui la natura era promessa di rinascita. Mirage rinnova questa tradizione, trasformando il luogo di

lavoro in un orizzonte di metamorfosi dove piante, architetture e corpi si intrecciano senza

gerarchie. «Volevo portare una natura anche erotica in uno spazio di lavoro: le piante sono organi

produttivi; l’idea è immettere un’energia viva e forte in un ambiente diverso», afferma Iacurci.

Dall’atrio, la cucina ospita Hot (2010) di Luca Bertolo: la parola spezzata — “HOT” in lettere

luminose e “EL” soffocato in un sacco nero — su un fondo arancione, crea una cesura cromatica.

Ruotando lo sguardo, il neon di Marcello Maloberti, Gli sbagli si infilano come perle, si inserisce

nel racconto di Mirage. «Gli errori fanno parte del lavoro — spiega Nembrini — e spesso aprono

possibilità inattese».

Nella sala riunioni, i vasi dipinti da Agostino diventano figure arcaiche: anfore monumentali

accanto a una colonna stilizzata, da cui si innalza una palma blu con frutti rossi. La parete si fa

quinta rituale, alternando geometrie e simboli, contenimento e generazione. Lì rispondono le opere di Davide Monaldi: Vasi metafisici in miniatura e Trovatelli, corpi sospesi e mascherati, segnano

precarietà e erranza.

 

 

Le fotografie F’OOT N’OTES di Ode De Kort, appese come appunti corporei, e il murale OO

OO’ING, che disegna lo spazio con il passo, aggiungono un registro performativo, legando gesto e

architettura.

Il giardino di Iacurci si estende nella stanza vicina: vasi, steli e corolle stilizzate corrono lungo le

pareti come colonne vegetali. Su una parete compare uno dei tre dipinti del trittico Mirage, che

raccoglie e rilancia le linee circostanti. Poco più in là, Woman, Mountains, and the blue sky di

Sepideh Salehi introduce una figura femminile sospesa in un paesaggio. In dialogo con queste opere

si innesta Stem #2, un totem verticale che sembra fiorire nello spazio come presenza viva.

Proseguendo, il ritmo cambia: la parete arancio nella stanza vicina si anima di fontane stilizzate,

disegnate con forme verdi e nere disposte con precisione geometrica. La sequenza si ripete come un

fregio, trasformando lo spazio in un paesaggio astratto dove l’acqua è memoria visiva più che

elemento reale.

 

Sul fondo del corridoio Lena di Zanele Muholi si erge come guardiana silenziosa, radicando il

giardino nell’esperienza individuale e nella memoria collettiva. Voltando lo sguardo, il Trionfo

dell’Aurora di Maloberti esplode in un tappeto d’immagini: un cortocircuito visivo che mescola

icone e moltitudini, portando il caos della vita dentro la regolarità dello spazio.

Prima di salire, una palma azzurra si inserisce fra piante verdi: artificio e naturale si mescolano,

amplificando l’idea di un paesaggio ibrido che vive con gli ambienti. Il neon di Nina Carini The

house of a poet rests on the horizon illumina il cemento con una scrittura fragile e tenace, mentre

l’opera sospesa di Ode De Kort, P’OSE 6, scandisce il passo.

 

 

Al secondo piano le campiture si fanno sobrie, il ritmo rallenta ma resta deciso, e appare al

centro CIELO di Marcello Maloberti scritto al contrario, segno che disorienta e orienta insieme,

introducendo agli uffici di Enzo Nembrini.

Qui, Sospensione della scelta di Arcangelo Sassolino e Sharol di Jacopo Benassi intrecciano la

narrazione con due quadri di Iacurci che completano il trittico. Non sono quadri appesi, ma tele

monumentali che divengono parte dell’architettura, trasformando le pareti in scenografie vive.

«Non volevo che le opere coesistessero passivamente, ma che si sfidassero, creando tensioni e

risonanze,» spiega Enzo. Sassolino condensa la materia in un corpo silenzioso e compatto, mentre

Benassi esprime vulnerabilità con un torso segnato da inserti vegetali. Grandi volti stilizzati

percorrono le pareti custodendo la soglia, presenze che accompagnano il passaggio.

 

L’architettura, con cerchi scavati nei muri e memore della lezione di Carlo Scarpa, apre prospettive

inattese invitando a pensare lo spazio come fluido e attraversabile. In questi varchi si

inserisce Nikdy neni dost di Helena Hladilová, equilibrio di pietre sovrapposte che trattiene e libera

insieme la gravità del luogo. Così la stanza si dilata in un paesaggio dove pittura, scultura e

architettura si intrecciano in un organismo unico e narrante.

 

 

Con Mirage l’edificio diventa organismo: lo spazio non ospita solo opere, ma cambia mentre lo si

attraversa. «Uno spazio di lavoro non è solo funzionale» dice Enzo, «deve restituire energia e

stimoli, la sensazione che ogni gesto faccia parte di un paesaggio vivo».

«Per questo» aggiunge Agostino, «mi interessa che le superfici restino in movimento».

Chi percorre queste stanze non incontra solo forme e immagini, ma un ritmo di colori, luci e

materiali che altera la percezione del tempo, rallentando o accelerando i passaggi, aprendo pause

inattese. L’esperienza coinvolge vista, corpo e umore quotidiano, trasformando il lavoro in

rigenerazione.

 

Mirage riflette anche l’identità di Ecoedile, che non costruisce solo edifici ma unisce lavoro e

bellezza, impresa e arte, territorio e comunità. Lo spazio testimonia una visione condivisa in cui

architettura e arte generano un organismo culturale vivo.

 

Il respiro che attraversa le sale, dalle prime pennellate all’ultima soglia, lega la mano dell’artista a

quella del costruttore: un dialogo continuo che genera nuove forme e relazioni.

 

È un miraggio che resta, perché ciò che rivela è reale.

 

 

Scarica qui il Catalogo completo del progetto Mirage.

 

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